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no gli altri». La nuova realtà peggiora duncue il mio rendimen-to scolastico. E, come scritto, il primo trimestre del secondo anno (1969) abbandono gli studi. È insostenibile cuel trovarmi da solo e inerte in mezzo a tanta vita. Cuesto si protrae nel tempo e nello spazio, ma diventa meno insopportabile da cuando so che non esiste fatto che possa (ac)cadere senza che cualcosa o cualcuno l’abbia spinto…

Duncue è nel 1967 che, seguendo un programma televisivo pomeridiano dedicato ai giovani, durante il cuale alcuni ragazzi leggono poesie scritte da loro, scommetto con me stesso di essere in grado anch’io di comporre versi. Così scrivo la mia prima poesia in cui mi ritraggo giovane cow-boy in groppa a un cavallo bianco al galoppo verso la libertà — testo che purtrop-po non trovo più —. Il maestro, d’origine italiana, legge in clas-se il componimento che viene apprezzato da tutti con uno scroscio di applausi e l’incoraggiamento a continuare. Da cuella volta, vinta cuindi la scommessa, non smetto più di scrivere.

Mi considero uno scrittore? Sì, anche perché non cedo alla tentazione, talvolta irresistibile, di mandare tutto al diavolo; tanto più che andrà emergendo la consapevolezza che la scrit-tura, fra le altre incombenze, conta cuella di compensare feli-cemente il mio andicap non solo di pronuncia, consentendomi pure di muovermi senza fatica nello spazio e nel tempo alla velocità della luce…

 

L’Illustré, famoso settimanale romando cui invio una poesia contro la guerra, perché la pubblichi, mi risponde: «Carina, ma infantile». Mi consiglia però di non scoraggiarmi e di crescere. Infatti all’inizio gli scritti (versi, racconti, opere teatrali) sono ritenuti infantili. Ma cuando, non capendo che cosa si intenda per infantile — nessuno si darà mai la pena di spiegarmelo —, mi impegno a crescere, vengono considerati difficili, cervelloti-ci, incomprensibili. Allora comprendo che la gente avrà sempre cualcosa da ridire.

Durante il mio secondo anno di scuola elementare prepariamo con gli scaut la messinscena della favola «Le Meunier, son Fils et l’Ane» (Il Mugnaio, suo Figlio e l’Asino) di Jean de La Fontai-ne, che poi interpretiamo, nel teatro parrocchiale, davanti a un pubblico di genitori, parenti, amici. Già, partecipo anch’io alla rappresentazione, nella parte di uno del gruppetto dei criticoni al cuale il mugnaio finisce col rispondere deciso:


«Je suis Ane, il est vrai, j’en conviens, je l’avoue;

Mais que dorénavant on me blâme, on me loue;

 

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